Dal 4 gennaio è in vigore una nuova disciplina sanzionatoria per violazioni concernenti l’etichettatura dei materiali usati nelle calzature e delle fibre nei prodotti tessili. Il decreto, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 296 del 20 dicembre 2017, si occupa nello specifico della “Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni di cui alla direttiva 94/11/CE, concernente l’etichettatura dei materiali usati nei principali componenti delle calzature destinate alla vendita al consumatore e al regolamento (UE) n.1007/2011 del Parlamento europeo e del consiglio, del 27 settembre 2011, relativo alle denominazioni delle fibre tessili e all’etichettatura e al contrassegno della composizione fibrosa dei prodotti tessili”.
Con la sua entrata in vigore, viene attribuita una responsabilità diretta, con conseguenti sanzioni (fino a 20mila euro) a chi effettivamente etichetta i prodotti (calzature e tessili) e cioè al fabbricante, importatore e distributore (secondo l’art. 15 Regolamento UE 1.007/2011, Paragrafo 2, è considerato fabbricante chi immette un prodotto sul mercato con il proprio nome o marchio di fabbrica, vi appone l’etichetta o ne modifica il contenuto).
L’Autorità di vigilanza (CCIAA, Agenzia delle Dogane e dei Monopoli) assegna un termine perentorio di 60 giorni al fabbricante o al suo rappresentante o al responsabile della prima immissione in commercio delle calzature o dei prodotti tessili sul mercato nazionale, per la regolarizzazione dell’etichettatura o il ritiro dei prodotti dal mercato. Chi non ottempera entro il termine assegnato è soggetto a una sanzione da 3mila a 20mila euro.
«Questa disciplina – commenta Matteo Scarparo, responsabile Global Trade di Assocalzaturifici – non fa che riempire un gap legislativo. Nel Decreto Ministeriale 11 aprile 1996 con cui l’Italia ha recepito la Direttiva europea 94/11/CE – che norma l’etichettatura per le calzature con l’obbligo di indicare i materiali di cui sono fatte le varie parti della scarpa – mancavano infatti da anni indicazioni, dal punto di vista della quantificazione, su quali fossero le sanzioni amministrative da applicare a chi viola la legge. Nel corso degli ultimi mesi il Ministero Sviluppo Economico ha riempito questa mancanza, indicando quali siano gli importi da addebitare ai vari anelli della filiera che violino la norma. Quindi, il decreto entrato in vigore il 4 gennaio scorso non è niente di più che una legge che introduce sanzioni amministrative in capo ai produttori, importatori e rivenditori di calzature, nel momento in cui c’è una violazione della direttiva, ovvero nei casi di indicazione fallace dei componenti, indicazione incompleta o parziale, oppure assenza totale di etichetta. Dal punto di vista delle sanzioni, queste sono più alte per il produttore e l’importatore, rispetto a quelle applicabili al rivenditore di calzature. E’ chiaro che, a nostro parere, una norma di questo tipo tende a privilegiare, come impostazione, la tutela del consumatore. Da una parte, richiama il rivenditore ad effettuare comunque una verifica che le indicazioni fornite dal produttore siano corrette; in ogni caso, al produttore che conosce meglio i componenti e i materiali di cui è costituita la scarpa, viene attribuita la maggiore responsabilità su quanto viene immesso sul mercato. Il rivenditore, infatti, è soggetto a una sanzione pecuniaria che varia da 700 a 3500 euro, mentre il fabbricante o importatore viene sanzionato per un importo che va dai 3mila fino a 20mila euro. Come Associazione, in rappresentanza dei produttori, abbiamo cercato di riequilibrare la differenza pecuniaria che, in prima battuta, era ancora più accentuata. Riteniamo che lo squilibrio sia tuttora troppo marcato a vantaggio dei rivenditori, che hanno il compito e tutto l’interesse a controllare la conformità dei prodotti che mettono in commercio. Avremmo anche preferito una maggiore gradualità e una migliore esplicitazione dei criteri con cui vengono applicate le differenti sanzioni pecuniarie previste dalla norma, visto che, con una forchetta così ampia, viene lasciata un’eccessiva discrezionalità al controllore, l’autorità di vigilanza, nel giudicare il livello di gravità dell’effrazione commessa in ciascun caso specifico. Inoltre, nel caso, per esempio, di errore non voluto, avremmo preferito si potesse applicare il minimo della sanzione, con un importo inferiore a quanto ora previsto, che è pari a 3000 euro».